Che gusto e che squisitezza il Vin Santo, icona della Toscana al pari dei cantuccini, del Brunello, del panforte. Ma chissà quale è la sua storia?
Me lo sono sempre domandato, ma le notizie in proposito sono assai scarse. Certo è che il suo successo è legato strettamente alla nostra regione, ma della sua storia, a parte le varie improbabili leggende, se ne sa veramente poco.
I primi documenti che ne parlano sono del secolo diciotto ed esattamente di metà 1700. Esso era particolarmente diffuso in Toscana ed Umbria, ma anche nel Veneto e in alta Romagna.
La versione più convincente sull’origine del nome rimane tuttavia quella legata al metodo di appassimento delle uve che durava fino alla “settimana santa” quando venivano finalmente spremute e torchiate.
Qualche novità sul Vin Santo ci sovviene però da un documento di inizio ‘800 proveniente dagli archivi di casa Sansedoni, nobilissima e blasonata famiglia senese.
I Sansedoni avevano tra Monteroni d’Arbia e Murlo un’enorme tenuta con villa padronale chiamata “La Selva”, dove spesso si recavano per la caccia, la vendemmia, o semplicemente per trascorrere alcuni giorni di riposo con parenti e amici e, naturalmente, non mancavano feste e mangiate con ospiti di alto rango.
Erano molto amanti del cibo, del vino, ma erano anche molto attenti al buon andamento delle loro terre e non disdegnavano ad apportare modifiche ed a sperimentare ogni novità che riguardasse le migliorie agrarie o qualsiasi mutamento degno di portare vantaggio ai propri beni, siano essi stati animali o olivi, fossati o alberi da frutto.
Ed ecco che nei primissimi anni di quel secolo (1800) scopriamo che nella zona geografica sopra detta (Ville di Corsano), già si usava produrre vinsanto “alla senese”, ma i Sansedoni, che avevano girato il mondo e tutta Italia, vollero chiamare presso di loro un enologo del nord d’Italia che insegnasse ai contadini del luogo un metodo un po’ diverso di fare il Vin Santo: quello alla veronese.
Ecco il documento:
Metodo per fare il celebre Vino Santo all’uso di Verona, coll’aggiunta di alcuni schiarimenti (chiarimenti) ottenuti recentemente:
Si farà scelta d’uva bianca di buona terra, che dai noi veronesi si chiama Trebbiano, e questa si coglierà ben matura ed in tempo asciutto, si stenderà diligentemente in una camera in maniera che marcire non possa e vi si lascerà per lo spazio di due mesi ovvero fino a che non faccia assai freddo. Spremuta allora con lo strettojo si ponga il mosto in una tina esposta al cielo sereno, in un luogo però non sottoposto alla pioggia, e qui lasciato per tre giorni e tre notti; deposto che avrà le feccie, si verserà quello che è chiaro in un barile, o per dir meglio in un carratello, e si turerà bene. Si pone allora il carratello sotto il tetto acciò senta il caldo e vi si lasci per due anni almeno senza muoverlo, e più che vi starà diventerà migliore.
Il documento contiene anche le domande che i contadini di Ville di Corsano fecero all’esperto:
-Primo se si devono spremere i grani dell’uva senza i raspoli;
-Secondo se si possa fare il Vino Santo coll’uva nera;
-Terzo se il vino dopo tre giorni di bollitura si debba più tramutare quando è già deposto nel carratello;
– Quarto se i carratelli di Vino Santo si debbono collocare nel piano terreno o in quartiere più alto.
Ed ecco le risposte dell’esperto.
–Primo che i raspi non siano levati, ma bensì spremuti i grappoli tali quali sono, non dovendo essi bollire perché mostata che sia l’uva, subitamente si preme collo strettojo fatto a tale effetto, così che il mosto non contrae alcuna mala qualità dai graspi (raspi);
–Secondo in quanto poi al fare il Vino Santo nero, si fa benissimo, ed è assai più stimato del bianco per essere migliore di gusto, e più raro per la sua difficile riuscita. S’osservi lo stesso metodo facendo scelta dell’uve migliori di più specie, ma che siano delicate e di buon terreno, cioè di colle e non di piano. L’uva che è in Lombardia si chiama Tribbiano, non è la stessa a cui in Toscana si dà questo nome, ma è un’altra uva di molta forza, di cui si cava un vino di buon sapore ed assai generoso. E da tal mescolanza d’uve si formerà un Vino Santo d’ottima qualità.
–Terzo e quarto il mosto si pone allora in ordigni appropriati che in Verona si chiamano Brenti e sono piccoli tini, e questi riposti in luogo aperto esposti al cielo sereno, dove però la pioggia non possa cadervi, si lascia che il mosto si chiarifichi da per sé depurando e deponendo tutta la materia fecciosa senza bollire altrimenti perché per appunto si fa scelta del tempo asciutto freddo e sereno acciò il mosto non bolla.
Il lungo tempo nel quale l’uva sta distesa e riposta sul pavimento o sopra le stuoje fa che il sugo fermenti molto negli acini e si rischiari come si vede nello spremerla, così che non è difficile il capire come il mosto si rischiari benissimo nel breve corso di tre o al più di quattro giorni; il luogo poi per riporre il mosto subito che è imbottato o rinserrato in carratello deve essere luogo caldo e per ciò qui si usa riporli nell’alto della casa, cioè sotto il coperto, né di là più si rimuova per il corso di un anno intiero, lasciando che da sé lentamente bolla e si perfezioni ; passato l’anno si cavi e viene in tal guisa a separarsi dalle fecce deposte in quell’anno, e si ripone il carratello nello stesso luogo, lasciandovelo un altr’anno senza rimuoverlo più, e quanto più vecchio diventa, più riesce migliore. Avverto che non tutti usano le diligenze di separarli le fecce pretendendo alcuni che vi si debbino lasciare, chiamandole col nome di Letto.
(Arch. MPS, ARCH. SANSEDONI 2, INIZIO 1800, P. 515)
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