Campaldino, l’ultimo sussulto dei ghibellini toscani

Era l’undici giugno del 1289 quando nella pianura di Poppi (Arezzo) si svolse una cruenta battaglia tra guelfi e ghibellini. L’ennesimo duro scontro, dopo Monteaperti (1260) e Colle Val d’Elsa (1269) nel quale le opposte fazioni toscane si affrontarono di nuovo con le armi. Ma stavolta era diverso e già prima dello scontro uno dei due schieramenti partiva avvantaggiato. Nei vecchi libri di storia e un po’ nell’immaginario collettivo questa battaglia vide in campo fiorentini contro aretini ma, anche se la maggior parte dei contendenti proveniva effettivamente da queste due città, come negli scontri citati precedentemente, le fazioni erano ben più variegate.

Ma veniamo all’evento che scatenò la battaglia. Arezzo, di fede ghibellina, aveva cacciato le famiglie guelfe dalla città e queste si erano rifugiate a Firenze dove avevano chiesto aiuto. Il governo fiorentino aveva dato l’ultimatum agli aretini pretendendo che i fuoriusciti dovessero rientrare in città e che gli fossero restituiti i propri beni. Il Comune di Arezzo sapeva che la partita era rischiosa e che Firenze poteva contare sull’appoggio delle città guelfe toscane (ormai erano la maggioranza), ma il rischio era quello della perdita della propria libertà e indipendenza.

Il vescovo di Arezzo, Guglielmino degli Ubertini, allo scopo di preservare i propri castelli, tentò una trattativa privata e segreta con la controparte ma fu scoperto e costretto (pena essere ucciso per tradimento) a mettersi a disposizione dell’esercito aretino.

Le truppe fiorentine partirono da Firenze verso Arezzo scegliendo la strada più impervia (passo della Consuma) e questa si rivelò una mossa vincente sia perché inaspettata, sia perché così furono bloccate sul nascere le possibili reazioni di quei castelli della zona di montagna da sempre fedeli ai ghibellini. A questo punto i fiorentini scesero nella valle dell’Arno e gli aretini arrivarono a sbarrargli la strada, ma la partita adesso si giocava in campo aperto ed era un grande vantaggio per i guelfi che erano in numero nettamente superiore. Oltre ai fiorentini infatti, le altre città della lega guelfa avevano inviato i loro contingenti e così Firenze aveva ingrossato le proprie fila con soldati di Siena, Pistoia, Prato, Massa e Lucca oltre naturalmente ai fuoriusciti aretini.

A capo del contingente guelfo c’erano Guglielmo de Dufort, Aimeric de Narbonne, Vieri de’ Cerchi, Corso Donati e Ugolino de’ Rossi podestà di Firenze. Arezzo invece poteva contare solo su un contingente proveniente da Pisa e poche altre truppe di fede ghibellina provenienti da altri luoghi della toscana. I comandanti di questo esercito furono il vescovo Guglielmo degli Ubertini, con il suo parente Guglielmo dei Pazzi (ramo del Valdarno) detto “il Pazzo”, Buonconte da Montefeltro e Guido Novello a capo delle riserve.

Nelle battaglie dell’epoca il ruolo fondamentale era giocato dalla cavalleria e quella fiorentina, ci dicono i cronisti, era composta da 1400 cavalieri contro i 700 di Arezzo. Lo scontro si svolse nella pianura di Campaldino, tra Poppi e Pratovecchio, nei pressi della chiesa di Certomondo e fu fatale ai ghibellini che vennero definitivamente annientati.

Nonostante il divario dei numeri il primo assalto aretino fu devastante ma un improvviso attacco dei cavalieri di riserva pistoiesi guidati dal guelfo nero Corso Donati sul fianco degli avversari capovolse le sorti della battaglia. Un successivo errore dei ghibellini ed in particolar modo di Guido Novello, che credendo perduta la battaglia si rifugiò in un vicino castello, proprio quando ancora le sorti erano in bilico, decretò la sconfitta. Sul campo morirono i loro condottieri, il vescovo Guglielmo degli Ubertini, che secondo la leggenda fu sepolto proprio nella chiesetta sopra detta (ed ancora esistente) e Buonconte da Montefeltro, il cui il corpo non fu mai ritrovato.

Proprio a questa vicenda Dante Alighieri, che partecipò in prima persona alla battaglia di Campaldino tra le file fiorentine, dedicò i celebri versi del Quinto canto del Purgatorio, immaginandosi che il corpo del Montefeltro, caduto in battaglia, fosse conteso contemporaneamente tra un angelo e un demone. Alla fine della lotta l’angelo riuscì a prenderselo e il diavolo per dispetto fece piovere talmente tanta acqua che il cadavere se ne andò a finire in Arno e non fu più trovato.

Nonostante questa battaglia non fosse stata, per numero delle truppe in campo, la più partecipata del periodo essa costituì la spallata definitiva alle pretese ghibelline in Toscana. I morti tra i guelfi, ci raccontano i cronisti, furono circa 300 mentre quelli ghibellini circa 1700.

Moltissimi furono i prigionieri portati a Firenze e dei quali circa la metà furono riscattati con denaro, ma una buona parte di essi morì per le ferite riportate e durante la prigionia. La leggenda narra che i capitani fiorentini, visto lo strazio patito dai prigionieri, si mossero a compassione dando a quelli che morivano una degna sepoltura in un luogo di Firenze vicino all’attuale via Ripoli e che da allora prese il nome di “canto degli aretini”. Inoltre, affinché di quel luogo le autorità di Arezzo potessero prendersene cura, ne cedettero il terreno al loro Comune.

Questo piccolo lembo di terra ancora oggi appartiene all’Amministrazione aretina e un secolo fa, a ricordo dell’accaduto, fu posta una colonna commemorativa.