Il madonnino dell’Arbiola

Nei pressi della Grancia di Cuna (Monteroni d’Arbia), c’è un Madonnino come ce ne sono tanti sparsi nella campagna senese. Non ha un grande valore artistico e nemmeno iscrizioni che ci invitino a pregare o che ci raccontino qualcosa di importante e, al passeggiatore che lo scorge, non dirà assolutamente niente. Eppure, dopo i dovuti approfondimenti, questo piccolo simbolo, di cose da raccontare ce ne avrebbe parecchie.

Si trova ai bordi di una strada sterrata, a circa un chilometro da Cuna ed esattamente al bivio nel quale si scende verso il podere Arbiola.

Questa località esisteva fin dal secolo XI e la sua “corte” fu confermata nel 1081 da Enrico IV tra i beni del Monastero di S. Eugenio (Costafabbri).

Arbiola era già una comunità consolidata a metà del secolo XIII, tanto da essere considerata da Siena uno dei tanti “comunelli delle “Masse”, con un proprio “sindico” e “camerlengo”.

Le prime pergamene che attestano questo villaggio partono dal 1201 e sono numerosissime; esse riguardano prettamente le compravendite di pezzi di terra, poiché questa era una zona assai fertile ed anche le famiglie cittadine come i Tolomei se li contendevano.

Di tutte le pergamene una delle più interessanti è quella del 1249 perché testimonia uno dei primi passaggi di beni di quest’area al grande Ospedale Santa Maria della Scala il quale, agli inizi del secolo successivo, divenne il più grande proprietario terriero della zona. Agli inizi del trecento (1314) infatti, l’ente senese decise di costruire una delle sue grance più grandi (quella di Cuna), per poter amministrare meglio tutti i suoi possedimenti. Di questo piccolo comunello facevano parte gli uomini di Villa Canina, Striola (Istiola), Arbiola, Casino, Le Caggiole e Colombajo. Ancora oggi tutti questi toponomi sono ben presenti e corrispondono ad altrettanti poderi esistenti, Solo uno di questi, il Casino, ha recentemente cambiato nome in “Canto del Sole”.

Questa comunità aveva naturalmente la sua chiesa, testimoniata fin dal 1275, sotto il titolo di “Sancti Petri de Arbiuola” e poi, da questa data in poi, la ritroveremo presente in decine di documenti ecclesiastici e civili, dalle Decime all’Estimo del 1318, dai contratti di mezzadria, alle petizioni del suo popolo.

Successivamente, la peste del 1348 e le numerose scorribande delle Compagnie di Ventura che cominciarono poco dopo questa catastrofe, misero a dura prova questa comunità che si ritrovò decimata di uomini e di averi, tanto da far formale richiesta, assieme a quella di Tressa e Isola d’Arbia affinché il Consiglio Generale di Siena costruisse una fortezza a Cuna.

La chiesa intanto continuava ad essere officiata e ad avere il proprio parroco fisso, ma agli inizi del Quattrocento la situazione economica era sicuramente peggiorata e S. Pietro ad Arbiola riusciva in malo modo a mantenersi.

Fu così che nel 1419, con l’approvazione del Vescovo Casini, “essendo incapace con le tenui sue rendite, di sostenersi e mantenere un suo rettore, fu incorporata a quella di S. Giacomo e Cristoforo di Cuna, perlomeno fino a quando Ser Mariano di Giovanni, che ne era allora il parroco, avesse continuato a dirigerla”. Nel 1426, non avendo più un proprio rettore venne aggiunta alla dote di Ser Giacomo di Niccolò che dirigeva la chiesa di Marciano ed anche quella dei SS. Simone e Giuda di Collemalamerenda. Nel 1444 venne data in dote a Don Angiolo, rettore contemporaneamente anche della chiesa di S. Andrea in Camollia e di S. Angelo a Tressa di Val d’Arbia.

A dare l’ultimo colpo di grazia alla comunità dell’Arbiola e alla sua chiesa fu senza dubbio la “Guerra di Siena” del 1553-1555. Dalle cronache sappiamo che tutta l’area intorno a Cuna fu ripetutamente devastata ed uno dei poderi dell’Arbiola dato alle fiamme: il Colombajo.

Nel 1589 il reverendo Pasquino Petrini, parroco della chiesa di Monteroni, si recò da Monsignor Ascanio Piccolomini Arcivescovo di Siena comunicandogli che la chiesa dell’Arbiola, era rimasta vacante e propose di accorparla alla sua. Secondo il Petrini, la chiesa di San Pietro minacciava imminente rovina, non vi era l’abitazione del parroco e la popolazione era di “picciol numero”. Fu così decisa l’unione delle due parrocchie con il vincolo che il prete di Monteroni, e da allora in poi i suoi successori, dovessero alla Mensa Arcivescovile di Siena un censo annuo pari a due libbre di cera bianca lavorata da pagarsi ogni festa di San Biagio.